Siamo dove diciamo di essere?

Friend Map Instagram

Dobbiamo davvero dire dove siamo? Forse...

Da ormai qualche tempo Instagram ha deciso di rendere più accessibile la funzione Friend Map e, come sempre accade quando una piattaforma aggiunge un nuovo strumento di tracciamento, il dibattito si riapre, per noi professionisti, per noi di BMC, per i nostri clienti ma anche per i privati.

I temi caldi? Iperconnessione, privacy, presenza; non solo digitale, anche fisica.

Al di là della novità tecnica, infatti, la domanda che resta sul tavolo è meno ovvia di quanto sembri: non è semplicemente “posso far vedere dove sono?”, ma “che cosa significa, per me e per chi mi segue, dichiarare dove sono?”.

Non è un dettaglio da smanettoni, è una questione culturale esattamente come nel caso di Charachter AI.

L’inquietudine silenziosa della mappa aperta

Da utente “privata”, la mia prima reazione non è stata l’entusiasmo, ma piuttosto una leggera, persistente perplessità.

Sapere di poter essere geolocalizzata quasi in tempo reale, visualizzabile su una mappa per chi mi segue, sposta qualcosa nella percezione di sé: non sono più solo online, sono posizionata. Non sto semplicemente condividendo contenuti, ma lasciando una scia di coordinate.

Conseguentemente, ad un certo punto la domanda è diventata inevitabile: sto comunicando o sto esibendo?
Perché la linea è sottile. E la tentazione di colmare ogni vuoto, “sono qui”, “sto facendo questo”, “sono con queste persone”, rischia di trasformare la presenza digitale in una forma di esposizione continua, difficilmente reversibile.

Non è solo un tema di sicurezza ma è un tema di respiro, di diritto a non essere sempre rintracciabili, sempre “in scena”.

Il discorso cambia se ho un’attività.


Il punto di vista professionale: dal tracciamento alla narrazione

A voler essere onesti c’è l’altra prospettiva da valutare, quella di chi lavora nella comunicazione.

Guardata con gli occhi di un social media manager, Friend Map smette di essere soltanto uno strumento di controllo e diventa un possibile tassello narrativo. Per un’attività, un brand personale, una realtà glocal, il “dove” non è un mero dato logistico: è contesto, è sfondo, è parte del racconto.

In alcune situazioni, dichiarare dove siamo può:

  • rafforzare un legame con una comunità locale, dando un volto e un luogo a un brand altrimenti astratto;
  • umanizzare la presenza online, mostrando ambienti, routine, momenti dietro le quinte che rendono più credibile ciò che comunichiamo.


In questo senso, la mappa non è più soltanto uno strumento di tracciamento, ma una possibile bussola relazionale: ci dice non solo dove siamo, ma da dove stiamo parlando.

Naturalmente, tutto questo funziona solo se il “dove” è significativo. Un luogo che esiste solo per riempire uno spazio sulla mappa resta un segnaposto vuoto.


Glocal, davvero: il luogo come parte dell’identità

Da tempo ripetiamo che il marketing è glocal, che bisogna tenere insieme radici e orizzonti, vicino e lontano. Friend Map, nel bene e nel male, è un’ulteriore concretizzazione di questa tensione.

Il rischio è trattarla come un’ennesima feature da usare “perché c’è”, inseguendo una forma di presenza costante e quasi compulsiva. L’alternativa, più complessa ma più onesta, è chiedersi se il luogo che stiamo mostrando aggiunge senso a ciò che raccontiamo.

Alcuni casi in cui il “dove” può avere un peso reale:

  • un brand che lavora sul territorio e vuole rendere visibile la propria prossimità fisica alle persone;
  • un progetto personale che vuole mostrare le sue connessioni con determinati ambienti culturali, professionali, sociali, non come sfondo decorativo ma come parte dell’identità che comunica.

Non è una questione di “essere moderni” e adottare la funzione. È una questione di coerenza: il luogo che segno sulla mappa racconta qualcosa di me, la mia attività, il mio negozio o è solo un puntino in più?

A questo proposito, continua a leggere!

La domanda scomoda: perché lo sto facendo?

Ogni nuova funzione social porta con sé la stessa illusione: se tutti la usassero, allora dovrei usarla anch’io. È la logica dell’adozione per imitazione, non per scelta.

Friend Map Instagram non fa eccezione e la vera questione, dovrebbe essere “perché la attivo?”, piuttosto che come l’attivo.
In termini molto concreti:

  • che tipo di relazione voglio costruire con chi mi segue?
  • fino a che punto voglio che la mia posizione fisica ne faccia parte?
  • questa informazione arricchisce il contenuto o è solo rumore in più?


Se l’unica risposta è “perché è una funzione nuova”, forse non basta.

Tra presenza e invasione: dove vogliamo fermarci?

Come anticipato, sullo sfondo restano, inevitabilmente, i temi di sempre: privacy, gestione dei dati, abitudine a vivere costantemente tracciati, normalizzazione di un’esposizione continua di sé, ma ridurre il discorso a “pro” e “contro” la funzione sarebbe, al momento, intellettualmente pigro.

C’è qualcosa di più interessante in gioco: il modo in cui interiorizziamo queste logiche.
Più ci abituiamo a essere mappa, meno avvertiamo come eccezionale il fatto di esserlo. Diventa normale. Scontato. Quasi dovuto.

È qui che si apre lo spazio di responsabilità, soprattutto per chi fa comunicazione in modo professionale: decidere non solo se usare uno strumento, ma che cosa legittima ogni volta che lo usa. Che tipo di rapporto con le persone sta contribuendo a costruire.

La domanda su “cosa pubblico, allora?” rimane. E, per oggi, può anche restare senza risposta definitiva.

Forse il punto, adesso, non è riempire subito la mappa.
È concedersi il lusso di un dubbio in più prima di mettere un’altra puntina sul nostro percorso digitale.






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Federica Carrega
Social Media Manager

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